lunedì 4 giugno 2012

2 - Birra Fredda


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“Birra Fredda”

Nella sua terra natia era ormai diventato una celebrità nel campo artistico. Non passava giorno che qualche giornalista cercasse di capire dove si fosse ritirato per creare la sua prossima opera.  Il critico artistico del “Berlin Zeitung” aveva commentato così la sua prima esposizione: “Michael Haneke tradisce il suo passato da fantaccino durante la Grande Guerra. La sua scultura risulta, grazie allo stile molto particolareggiato e alla massiccia presenza di tematiche grottesche, disturbante ma al contempo attrattiva. Corpi nudi, lame e bende riportano l’osservatore direttamente sui campi di battaglia, anche grazie ad un sapiente utilizzo dei giochi di ombre. L’arte di Haneke risulta quindi non digeribilissima da tutti, ma la sua particolare carica simbolica ed emotiva rendono le sculture veri e propri personaggi degni di un posto nei nostri cuori.” L’articolo di giornale era rimasto appeso nel suo laboratorio di New York per due anni. Ora il piccolo trafiletto aveva percorso un lungo viaggio e si trovava da qualche parte nei dintorni della cittadina di Bright Falls.

Il lago gli dava un buon presentimento. Michael era seduto su di una piccola sdraio ed ammirava il paesaggio. Il cielo era terso, senza il minimo accenno di nuvole. Ogni tanto qualche uccello ritagliava una propria scia scura in quell’azzurro intenso. Tutto era illuminato alla perfezione. Se fosse stato un pittore avrebbe sicuramente immortalato la scena in qualche tela da esporre in una galleria americana piena di ricconi con la puzza sotto il naso. Ma ciò che gli riusciva bene era la scultura. I bozzetti del suo lavoro, ancora allo stadio larvale, giacevano sul suo grembo come foglie autunnali abbandonate a terra. Le acque del lago si muovevano pigramente. Verdognole, facevano da anticamera all’abisso sottostante. Era come cercare di guardare dentro un pozzo. Potevi riuscire a vedere i primi metri ma, prima o poi, anche il più piccolo barlume di luce finiva e tutto sfumava semplicemente nel buio. Le increspature sulla superficie si muovevano sinuose. Erano quasi ipnotiche. Il calore del sole. Il cielo limpido. Il lento sciabordio dell’acqua. Tutto stava lentamente trascinando Michael tra le braccia di Morfeo. Le sue palpebre iniziarono a diventare pesanti e sentì un improvviso senso di stanchezza che lo pervadeva. Gli occhi si chiusero quasi con cautela. Il capo si abbandonò sullo schienale della sdraio. Il carboncino cadde nella sabbia scura. I bozzetti rimasero improvvisamente soli, ad osservare il cielo terso. Sotto di loro c’era solo un palombaro impantanato nel mare dei sogni.

Era buio. Faceva freddo. Aveva appena smesso di piovere e tutto era fradicio. L’odore era insopportabile. Il puzzo nauseabondo era accompagnato dai gemiti. Karl. Un colpo di artiglieria gli aveva sbriciolato un braccio dal gomito in giù. Un medico era riuscito a fermare l’emorragia ed a bendare il moncherino, ma poi una scheggia vagante di metallo aveva operato il chirurgo. Bel gioco di parole. La “ferita” si era presto infettata ed ora era carica di un liquido giallastro. E puzzava. Puzzava terribilmente. Sembrava che, dopo aver assistito agli effetti della “Mostarda” per tutto questo tempo, il corpo di Karl volesse imitarne le proprietà venefiche. Lamenti. Lamenti. Lamenti e quell’odore marcio che aleggiava tra le tavole, che impregnava i vestiti e che accarezzava il fango sul fondo della trincea. Tutti quelli che si trovavano nelle vicinanze dell’uomo si erano presto allontanati, turandosi il naso e gorgogliando in precipitosi conati di vomito. Tutti avevano lasciato quel loro commilitone a morire. Tutti. Tranne Michael. Quest’ultimo non riusciva moralmente ad allontanarsi. Quell’uomo stava soffrendo le pene dell’inferno. Agonizzava. In un certo senso, stava rivivendo la propria nascita. Invece di sbucare nella luce e finire tra le mani dell’ostetrica sarebbe annegato nell’oblio, molto lentamente. Lentamente e dolorosamente. Michael non poteva abbandonare un altro essere umano come fosse stata una bestia ferita. Avrebbe fatto di tutto pur di alleviare la sofferenza di Karl. L’uomo era stato semicosciente per tutto il tempo, lamentandosi e portando ogni tanto la mano al braccio solo per afferrare l’aria. Il futuro scultore gli sedeva accanto. Tentennava nel voler allungare un braccio e stringere il moribondo a se, forse sperando di dargli così un po’ di conforto. Improvvisamente Karl afferrò la spalla di Michael e, stringendola forse con le poche forze che gli restavano, sussurrò una cosa che gli fece gelare il sangue nelle vene. “Bitte, ist inhuman. Bitte, töte mich.”

Uccidimi. Per favore, questo è disumano. Per favore, uccidimi. Uccidimi. Quella parola rimbombava come una porta sbattuta nella mente di Michael. Uccidimi. Non aveva una pistola. Aveva solo un fucile molto malandato. Le munizioni erano molto scarse e un colpo in meno poteva fare la differenza tra il tornare a casa e cadere nel fango. C’era sempre la baionetta. Molto affilata. La sua lucentezza quasi discordava con il grigio ed uggioso ambiente della trincea a riposo. Avrebbe davvero avuto il coraggio di sgozzare Karl come un animale al macello? Avrebbe sacrificato la propria sanità mentale e quindi le proprie possibilità di ritornare a casa, solo per risparmiare ad un suo simile inutili sofferenze? Queste domande e molte altre simili ronzavano nella mente dell’uomo come zanzare in cerca di sangue fresco. Quanto ci avrebbe messo a morire Karl a causa dell’infezione? Non era un medico ma stimò un tempo limite di un’ora. Un’ora di dolore risparmiata ad un’anima in pena. Michael recuperò il fucile e staccò dal supporto in punta la lama. Gli tremavano le mani. Sentiva il rombo del sangue nelle orecchie.

Karl impiegò un altro giorno a morire. I lamenti divennero presto urla strazianti. Morì solo. Il soldato semplice Michael Haneke giaceva accoccolato accanto ad un suo giovano commilitone. Le lacrime scorrevano come un fiume in piena. Sapeva che presto, molto presto, sarebbe rimasto a secco.

Michael Haneke si risvegliò urlando. Nel sonno era caduto dal lettino ed ora aveva la faccia premuta nella sabbia. Per un momento gli parve di trovarsi di nuovo in quel dannato buco d’inferno.  Cercò l’elmetto rovistando nella sabbia scura tipica dei laghi vulcanici. Non lo trovava, non riusciva a trovarlo. NON TROVAVA QUEL CAZZO DI ELMETTO! QUALCHE CECCHINO GLI AVREBBE SPARATO ALLA TESTA, LUI SI SAREBBE RITROVATO SENZA ELMETTO E CON UN TERZO OCCHIO IN FRONTE! SAREBBE MORTO, SAREBBE FINITO ALL’INFERNO E AVREBBE INCONTRATO KARL. SORRIDENTE E SENZA UN BRACCIO. DOLORE, TANTO DOLORE. TANTA PUZZA. PUZZA DI ZOLFO. FIAMME E IL SORRISO DI KARL. I DENTI MARCI E I LINEAMENTI CONTRATTI DEL RIGOR MORTIS. Per sempre. PER SEMPRE. PER SEMP…

Basil, di ritorno da Bright Falls dopo una mattinata di commissioni, bussò alla porta di casa. Non gli aprì nessuno. Sia l’entrata principale che quella del capannone erano chiuse a chiave. Aprì utilizzando il suo mazzo personale. Sul pannello di sughero appeso all’ingresso, accanto ad un vecchio ritaglio del “Berlin Zeitung”, si trovava un biglietto. La calligrafia era quella disordinata del suo mentore. Diceva: “Caro Basil, nel capannone non riesco a mettere due idee in fila una con l’altra. Ho ripescato un lettino dalla soffitta e ho deciso di andare al lago seguendo quel percorso nei boschi. Come ti ho già detto, ho un buon presentimento per quanto riguarda quel lago. Credo possa aiutarmi con i bozzetti. Se non sono a casa sentiti pure libero di raggiungermi. Non sarebbe male se ti restassero attaccate alle mani un paio di Bier.” L’uomo raccolse in un sacchetto di carta quattro birre e ritornò sui suoi passi. Una volta fuori imboccò il sentiero e si avventurò tra la fitta boscaglia. Quella mattina aveva ronzato da un parte all’altra come un’ape operaia e ora voleva solo rilassarsi in compagnia del suo più grande amico. Dopo una ventina di minuti raggiunse la riva sabbiosa. Ad attenderlo c’era la cosa più strana che avesse mai visto.
Il lettino era piantato nella sabbia scura, un po’ come una lapide. Poco distante c’era lo scultore. Basil, appena si accorse di ciò che era successo, lasciò cadere il sacchetto con le birre ed iniziò a correre verso l’uomo. Era rannicchiato in posizione fetale. Si stringeva le ginocchia al petto ed aveva gli occhi chiusi. I fogli del blocco dei bozzetti erano stati strappati dal supporto di cuoio e sparsi tutto intorno, come un tappeto di petali giallastri. L’assistente non poteva fare a meno di pensare che gli fosse venuto una qualche sorta di attacco e che fosse morto, magari per un infarto. Quando raggiunse Michael, si rese conto che era solo svenuto. Non aveva con se i sali e quindi dovette rifilargli un paio di sberle in piena faccia. Grazie a Dio funzionò.

Michel dormiva nel suo letto. Basil era riuscito a farlo riprendere. Assieme avevano recuperato gli scampoli di carta sparsi tra la sabbia ed erano ritornati a casa. Lo scultore non parlò per tutto il tragitto. Aveva una faccia molto abbattuta. La faccia di qualcuno che era stato all’inferno e che ne era tornato lasciando tra le fiamme una parte di se.




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