sabato 4 agosto 2012

SWAMPED (1\2) - L'automa che piange


Il sole stava lentamente salendo da dietro la collina. I suoi raggi arancioni indugiarono lungo gli steli d’erba, oltrepassarono i tronchi degli alberi crivellati dalla muffa e andarono ad infrangersi contro il vetro verde delle bottiglie appoggiate lungo il davanzale della finestra. La stanza venne invasa da un’aura malsana che ben si sposava con le numerose bottiglie che erano disseminate lungo i mobili ed il pavimento. Gli occhi di Kadir Patel registrarono quell’intrusione di verde, ma il suo cervello rimase incagliato sul disegno a matita che occupava il soffitto. Il tratto incerto in alcuni punti e marcato quasi fino all’ossessione in altri raffigurava una figura umanoide. Un automa, per la precisione. Il suo volto inespressivo di metallo aveva campeggiato sui telegiornali e sulle librerie di tutto il mondo fino all’anno prima. Quando la vita di Kadir poteva essere definita praticamente perfetta. Una promettente carriera come scrittore di romanzi di fantascienza, una casa faraonica in montagna e una fidanzata da poter amare. Soldi, soldi, soldi. Quella parola, per lo scrittore, era diventata quasi una bestemmia. Nimireth, l’universo immaginario che aveva trovato sepolto nella propria mente creativa, si era rivelato un suolo fertile per i sogni del giovane ragazzo di origini indiane. Ora era solo un cimitero desolato e arido, incapace di dare un singolo frutto a Kadir. Non dopo quello che era successo. Non dopo il Cataclisma.

Il Cataclisma, già. Si era portato via tutto ciò che contava davvero. L'unica persona che avesse mai amato. Il suo promettente futuro. Il  fragore dirompente che aveva fatto a pezzi ogni cosa si era comportato come una catastrofe nucleare. Aveva lasciato in giro più distruzione possibile, per poi far calare una pioggia acida che aveva fatto inceppare la sua creatività come un vecchio meccanismo ormai saturo di ruggine. 
Bloccandosi, i suoi ingranaggi mentali avevano triturato anche la sua integrità psicologica, riducendolo ad un primitivo guscio vuoto.

Per scrivere “Nimireth” , il suo romanzo di esordio nello spietato mondo dell’editoria professionistica, gli ci era voluto un anno. Aveva messo tutto se stesso nella stesura. Molte volte aveva avuto la sensazione che il suo lavoro fosse inutile ed era stato sul punto di gettare tutto alle ortiche. Priya, come un angelo salvatore, era sempre intervenuta. Supportandolo e incoraggiandolo. Gli mancava immensamente. Le pareti della gigantesca villa in montagna erano tappezzate di rettangoli e quadrati più chiari, testimoni silenziosi dell’assenza di tutte le foto che ritraevano quella che una volta era stata una coppia felice.


Kadir era steso sul letto già da due giorni. Mutande e canottiera, all’inizio era ubriaco. Le ore passavano e il subdolo processo mentale che già da sei mesi si agitava sotto la sua creatività in pezzi stava lentamente consumando anche l’ebbrezza provocata dall’alcool. Vuoto. Si sentiva vuoto. Niente sensazioni. Niente sentimenti. Solo … vuoto. E poi non avrebbe comunque avuto nulla da fare. Il telecomando del televisore era ricoperto di polvere, così come la macchina da scrivere. Ormai odiava quella tronfia rana di metallo. Le bottiglie di liquore erano tutte finite e ora servivano solo come memento mori alla sua sbornia latente. Tutto era fermo. IL tempo si era fermato. La sua vita si era fermata. Non sapeva esattamente quando. Anzi, lo sapeva benissimo, solo che quel pensiero avrebbe avuto l’unico effetto di stringere il cappio della sua forca mentale. Era perso in un labirinto da cui c’erano solo due uscite. Ed entrambe non gli piacevano affatto.


L’umidità stava lentamente filtrando attraverso l’intonaco del soffitto. Come un idea che viene a concretizzarsi dentro il cervello di uno scrittore, prese lentamente forma. Iniziò a concentrarsi in un'unica goccia d’acqua, più pesante ogni secondo di silenzio che trascorreva tra le pareti della villa. Nacque, crebbe e infine rotolò verso la sua ineluttabile fine. Si staccò dall’intonaco bianco e volò. Kadir, da principio, pensò che il disegno che ormai contemplava da due giorni avesse iniziato a piangere. Forse piangeva per il dispiacere, forse aveva solo riso troppo per la propria condizione. Le sue lacrime erano gelide e ,ogni volta che colpivano il volto dell’uomo, lo riportavano a galla. All’improvviso il mondo non era più solo uno sfondo. Era un luogo vero.


Le pupille di Kadir si dilatarono nella consapevolezza di essere tornato nel mondo dei vivi.

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