I mobili erano carichi di polvere. La farinosa patina grigia
ricopriva qualsiasi cosa. Bottiglie di alcolici ormai vuote. Libri ormai
abbandonati alle tarme. Il frigorifero ormai casa di bigattini e mosche. Una
pistola carica. Era come un velo di tristezza ed abbandono che si adagiava su
qualsiasi cosa. Il pulviscolo danzava lentamente nella tarda luce di montagna
che filtrava dalle tapparelle abbassate. Il silenzio aleggiava tra le stanze
come fosse uno spettro. L’intera villa era come sospesa nel tempo, immersa in
una dolce decadenza liquida.
Kadir Patel era
affondato nella poltrona più vecchia del salottino buono, al secondo piano.
Aveva trascorso i due giorni precedenti sdraiato ad osservare un disegno sul
soffitto che aveva fatto in un momento di ubriachezza. Poi un tubo si era rotto
al piano superiore, rovinando il disegno e risvegliandolo bruscamente.
Disorientato ed in preda al panico, aveva urlato come mai
aveva urlato nella propria breve vita.
Aveva ingurgitato un intero flacone di calmanti, le gambe
non lo avevano retto più e si era semplicemente afflosciato sul tessuto rosso.
Di fronte aveva una intera vetrina carica con i ninnoli e i memorabilia della
sua vita di coppia con Priya. La sua momentanea paralisi farmaceutica lo aveva
incatenato di fronte a ciò che lo faceva soffrire di più. Lo scrittore aveva
cercato di affogare i propri ricordi con alcool e medicine, e ora quelli
stavano avendo la loro vendetta. L’uomo cercò di muovere il braccio destro, ma
questo semplicemente si sollevò di un paio di centimetri per poi ricadere sul
bracciolo consunto della poltrona. I farmaci avevano fatto effetto, anche
troppo, ma il grosso stava per arrivare. Le palpebre iniziarono a diventare
pesanti. Kadir lottava internamente come un uomo in mezzo all’oceano che lotta
per rimanere a galla. Forse, pensando a qualcos’altro, sarebbe riuscito a
rimanere cosciente. La sua mente cercava qualcosa, qualsiasi cosa. LA PISTOLA. Il revolver carico si materializzò
come un araldo dello svenimento, mostrando il suo luccichio metallico allo
scrittore. La canna sembrava un buco nero, quasi un invitante amico pronto a
sussurrargli parole confortanti all’orecchio. Questi non fece in tempo a
razionalizzare quell’immagine, che i suoi occhi si chiusero. L’uomo aveva
finalmente ceduto alla stanchezza degli arti ed era finito sott’acqua, verso le
profondità inchiostro dell’oceano. E, come la saggezza popolare insegna, è
proprio nei posti bui che si annidano i mostri.
Come è andata a
lavoro? Bene, guarda, non puoi immaginare cosa è successo. Avete scoperto che
l’ufficio era costruito sopra un antico cimitero indiano? Cretino. No, la
moglie di Jack è venuta a fare casino, accusandolo di essersi scopato una
spogliarellista la sera prima. Ma Jack non è quello con tre figli? Si. HAHAHAH,
oddio, l’amico è in guai grossi! Ci puoi scommettere, comunque che c’è per
cena? Ordiniamo indiano? Naa, mi stomaca sempre, facciamo italiano. AHAH, hai
detto la stessa battuta di quella serie televisiva, quella con i picchiatelli
fumettari. Vedo che quando non ci sono fai altro oltre che scrivere il tuo
romanzo. Non mi sei mai sembrato un tipo da sit-com. C’è sempre una prima
volta, sai come qu
Kadir riaprì gli occhi. Aveva la
bocca secca e la sua fronte era imperlata di sudore freddo. Voci dal passato,
fantasmi di emozioni e ricordi ormai in decomposizione. Il suo stato mentale
precario gli aveva permesso di gettare uno sguardo nel Vaso di Pandora, e
quello che aveva visto aveva permesso ai propri demoni di ritornare nel suo
mondo. Non poteva continuare così. Doveva porre fine a tutto questo.
Ignorando la nausea, raccolse
tutte le forze che gli rimanevano e si alzò di scatto. Le medicine sembravano
aver esaurito parte de Kamadeva giaceva nella polvere. La vampa
aveva investito lui e la sua cavalcatura mentre si trovavano in volo. Il
Pappagallo, in fiamme, era precipitato fino ad impattare con il fianco di una
montagna. Era successo tutto così velocemente. Il cielo illuminato da un lampo.
Il silenzio. E poi il Cataclisma aveva incendiato le foreste. Aveva fatto
ribollire gli oceani. Avev
Le sue gambe non ce l’avevano fatta
a reggerlo. Dopo un paio di passi avevano ceduto, lasciandolo a terra come un
pupazzo a cui avessero tagliato i fili. Forse era addirittura svenuto per
qualche secondo. Visioni arcane e cadaveri verdi. Le gambe erano come due pesi
morti che lo intralciavano mentre strisciava giù per le scale, lungo il grande
corridoio e verso la libreria. Il revolver era illuminato da un raggio di luce
che filtrava attraverso un buco nelle tende pesanti che tenevano i libri polverosi
prigionieri della penombra. Kadir sapeva che era carico. Quando si issò su di
una sedia per poter raggiungere il tavolino, non si meravigliò di sentire
l’arma pesante. Il suo ventre di metallo era gravido di pace per lo scrittore.
Solo un click e poi solo l’oblio. Gli occhi si chiusero. Rimasero solo i suoi
pensieri che si cannibalizzavano a vicenda e il freddo della canna sulla
tempia.
Odore di mela verde.
Nessun commento:
Posta un commento