giovedì 6 dicembre 2012

Il Diavolo guarda il Fumo



Qualche tempo fa, la mia scuola è stata scelta dal comune per partecipare all'annuale viaggio della Memoria. Una volta tornati, ci è stato chiesto di realizzare una relazione a riguardo. La mia si intitola "Il Diavolo guarda il fumo". Buona lettura.




Il silenzio è assordante. Gli alberi sembrano essere dipinti sullo sfondo e dalle baracche deserte filtrano solo tentacoli di oscurità. Tutto sembra come sospeso nel tempo, immerso in una sorta di formalina del cordoglio. Imbalsamato nel dolore e nella disperazione. Tutto è freddo, crudo e dannatamente reale.

Il Complesso di Auschwitz (Auschwitz I e Auschwitz II\Birkenau) è ormai un deserto. Il vento fischia tra le macerie dei forni crematori e la rugiada scivola silenziosa lungo gli steli di erba. Il visitatore sprovveduto può trascorrere ore senza avvertire alcunché, passeggiando vicino ai ruderi e al filo spinato annerito dal passare degli anni. Ma se solo rivolge il proprio pensiero a ciò che è accaduto sotto quel cielo plumbeo, allora il mondo finisce. Le parole perdono improvvisamente significato, così come i concetti stessi di bene e male. Entrambi sono umani, derivati da ragionamenti e considerazioni lucide. Ciò che si annida tra i cumuli di protesi arrugginite e tra le fosse comuni è qualcosa di così spaventoso da corrodere qualsiasi altra certezza.

Se dovessi rappresentare fisicamente l’Olocausto, disegnerei un buco nero. Non porta da nessuna parte e distrugge qualsiasi cosa tocchi. Non è nato da ignoranza, ingenuità o malvagità. E’ il degno frutto dell’intelletto umano.

Durante tutto il corso della “Soluzione Finale” non ci fu un singolo treno merci che arrivò in ritardo nei campi. La precisione e la schematicità esatta con cui era organizzata l’operazione faceva concorrenza a quelle di un meccanismo ad orologeria. Le vittime (gitani, prigionieri politici, omosessuali, intellettuali, ebrei) venivano rastrellate dei vari ghetti\campi di prigionia sparsi per tutta l’Europa e caricate sui vagoni. Questi sarcofaghi semoventi erano pieni fino al soffitto di persone che si calpestavano alla ricerca di una presa d’aria. Una volta che i treni si fermavano, i prigionieri venivano divisi secondo una sorta di scala gerarchica la cui chiave di lettura era la disponibilità al lavoro. Tutti gli inutili ai lavori forzati venivano immediatamente gassati e mandati su per i camini. Gli altri venivano spogliati, rasati e numerati. Non erano più esseri umani. Ognuno di loro aveva avuto le proprie esperienze, aveva amato o odiato, aveva avuto dei propri pensieri e delle proprie idee. Ora non erano nient’altro che numeri. E’ infinitamente più semplice far sparire un numero, basta una sottrazione.

Ho camminato sulle rotaie della disperazione, posato il mio sguardo sulle finestre vuote delle baracche della costrizione e sentito l’odore della pazzia. Ho ascoltato le parole rotte dal pianto di coloro che avevano fissato l’abisso e in cui a loro volta l’abisso aveva lasciato un pezzo di se.

Le sensazioni che si provano nell’osservare ciò che rimane di quella mattanza sono molto difficili da descrivere. Rabbia, disgusto, pena. Nessuna di loro si avvicina anche solo lontanamente alla brutale realtà dei fatti.

Al di là dei campi seminati di carne e sangue, al di là delle ideologie e delle pulsioni, c’è Auschwitz. Il suo orrore più grande sta nella lucidità e nella premeditazione che sono riuscite a creare una perfetta catena di smontaggio. Coscienze, sentimenti, idee. Tutto finiva nel gigantesco tritacarne, pronto ad alimentare se stesso.
In definitiva, l’esperienza generale è stata molto intensa. Credo che, almeno una volta nella vita, ognuno debba comperare un biglietto aereo e volare fino alla Terra del Non Ritorno. 

Per non dimenticare.

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